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Non prendere mai decisioni quando piove
A tutti i compagni/compagne di persone affette da patologie: grazie per la vostra presenza.
Ciao amore mio,
“Un giorno ti dirò
Che ho rinunciato alla mia felicità per te
E tu riderai, riderai, tu riderai di me
Un giorno ti dirò
Che ti volevo bene più di me
E tu riderai, riderai, tu riderai di me”
È giugno, e questa canzone degli Stadio continua a suonare alla radio. O forse sono io, che come una profezia che si auto adempie continuo a cercare risposte nel mondo. Quelle risposte che mi piacerebbe trovare alle tante domande che mi riempiono la testa e il cuore.
Ieri sera, mentre stavi studiando, ho deciso di guardare un film che non conosci ancora: Sliding Doors. Anno 1998, due porte, due occasioni, due scelte diverse, due vite parallele e alternative. La protagonista prende il treno per un soffio, la stessa protagonista perde il treno per un soffio.
Tra perdere e prendere cambiano poche lettere, il significato invece cambia del tutto.
Chissà, tesoro mio, se anche a te nella vita capiterà una sliding door, chissà cosa farai, cosa sceglierai, cosa troverai, chissà.
E chissà chi diventerai quando attraverserai una di quelle porte.
Non so rispondere a questa domanda, ma posso raccontarti invece la sliding door della tua mamma, che inizia così: nell'ambulatorio di un ospedale.
"Signorina, questa stomia è definitiva. Dovrà tenere la sacca e abituarsi a fare una vita più normale possibile". Poche parole, che pesano come una condanna. Tantissime persone ci convivono con questo sacchetto, tantissime, ma quando tocca a te è diverso.
Il problema per me, che ero una ragazza di 37 anni con un lavoro e tanti interessi, non è stato accettare la stomia per me stessa. È stato quello di dover imporre una vita così diversa al mio compagno di vita. Ora tra noi due, pensavo, ci sarà sempre ad intralciare un sacchetto di plastica. Visite, odori, malumori, dolori, scatoline per casa. D'ora in poi saremo in tre.
Io non avevo bisogno di scegliere, dovevo solo accettare un destino. Ma lui? Perché costringerlo ad accettare una situazione così? Andai a casa e preparai la cena. Avevo scongelato il pesce e cucinai anche un bel contorno. Ed ecco arrivare la domanda: “Come è andata oggi la visita, amore? Cosa ti ha detto il chirurgo?”.
La risposta a quella domanda è stata la mia sliding door.
Prendere, o perdere. Poche lettere di differenza, ma cambiavano tutta una vita.
Strada 1, perdere.
Risposi: “Niente di che amore, continuiamo la terapia e basta”.
Non gli raccontai niente, non gli dissi la verità. Non ero pronta io, non era pronto lui, o forse ero io che non era pronta a sapere che lui era pronto. Ma si può mai essere pronti a una cosa del genere?
Io non lo sono, pensavo, non voglio condividere questa cosa con un altro, anche se questo altro lo amo. Avevo bisogno di stare sola con i miei pensieri, senza spiegazioni, senza nulla. Io e la stomia.
Come se tra me e lei ci fosse una guerra aperta.
E così decisi di andarmene. Preparai le mie cose e la mattina successiva lasciai tutto per tornare nella mia casetta di provincia, a cercare di capire come affrontare al meglio questo grande cambiamento.
Lo chiamerò, gli spiegherò…
Pensi che tuo padre avrebbe capito? Si sarebbe rassegnato? Oppure mi avrebbe cercata?
Strada 2, prendere.
Risposi: “Purtroppo dovrò affrontare l’intervento per il confezionamento di una stomia, e probabilmente la dovrò tenere per sempre, lo capiremo strada facendo. Se mi vuoi lasciare lo capisco”.
Mi guardò, lo guardai. Ci abbracciammo.
In quell’abbraccio c’era tutta la tristezza e la forza di una nuova vita che inevitabilmente sarebbe cambiata per sempre. Ci passarono davanti agli occhi contenitori pieni di sacchetti e salviette per ogni evenienza, ambulatori e sale di attesa per le visite, difficoltà e viaggi un po’ più complicati del previsto. Sicuramente la vita che avevamo programmato non sarebbe stata più la stessa: ma sarebbe stata insieme.
È la scelta migliore? Gli sto togliendo qualcosa di bello? Lo sto privando della possibilità di una vita più tranquilla e normale? Lo guardai e capii che sarebbe rimasto, che ci sarebbe stato, nonostante tutto.
Rise, perché è fatto così, per sdrammatizzare butta sempre tutto sullo scherzo, anche quella volta rise e poi, nella maniera più seria che esiste, disse quella frase che mi accompagna da sempre ogni giorno, ogni volta che vado in crisi: “Non ti preoccupare: io ogni cosa, anche brutta, te la restituisco amata”.
Epilogo
Era una cosa brutta, non la stomia, ma la situazione che la vita ci stava chiedendo di affrontare. E così, ho preso quel treno, e non mi sono mai pentita di non averlo perso.
Un treno che ci ha sicuramente portato a momenti di sconforto, a difficoltà, a momenti imbarazzanti e a crisi. Ma che abbiamo sempre affrontato in modo che potessimo crescere, e mai regredire.
Ma, soprattutto, Chiara, quel treno ci ha portato fino a te, che stai leggendo e forse non saresti mai nata se io avessi risposto in maniera diversa quella sera, se avessi fatto vincere la paura e la voglia di solitudine.
Oggi che compi 15 anni, la mamma e il papà ti regalano questa storia, perché tu sappia qual è la cosa più importante che abbiamo imparato: non prendere mai decisioni quando piove, e sii coraggiosa, sempre.
Con amore,
la tua mamma.
Al prof Emanuele Asti e alla fantastica equipe chirurgica del reparto di chirurgia generale del policlinico di San Donato.
Di mani, aerei e tramonti
“Mani grandi, cuore grande Marina”: me lo diceva sempre mio nonno materno, indicando le sue di mani, che erano grandi per davvero. Fosse vera questa diceria, allora io dovrei avere un cuore piccolo piccolo perché ho le mani piccole e tozze. Della serie: caro nonno le tue mani grandi e affusolate a me e alle mie sorelle non sono arrivate.
Mi spiace però confessarti nonno - ma forse dal cielo lo sai già e stai ridendo - che il chirurgo che mi ha salvato ha le mani decisamente molto più grandi delle tue. Enormi. Me lo hai mandato tu? Perché se quello che dicevi è vero, penso di aver trovato una persona con un cuore molto più grande del tuo.
È stata la prima cosa che ho notato di lui: quelle enormi mani.
Mani che mi hanno operata e ridato la vita.
Le mani del “mio” Chirurgo.
Sono “venuta” al mondo ancora una volta l’11 luglio 2025, in sala, “con me” e “per me” c’era il Prof. e Dott. Emanuele Asti.
A cui penso ogni giorno.
Vi siete mai chiesti di cosa è fatta la vita dei primari e dei chirurghi che operano nei reparti?
Che cosa fanno con “quelle mani” nel loro tempo libero?
Puliscono casa? Leggono? Riparano le biciclette dei figli? Fanno la spesa? Ma soprattutto: sono consapevoli che quelle mani, proprio quelle, salvano vite e aggiustano corpi e cuori?
Secondo voi lo sanno? ci pensano?
Io, lo vorrei dire al mio medico…
Vorrei dirgli professore, ma lei lo sa che mi ha salvato la vita?
Lei lo sa che dentro quelle case, dove ci sono tutte quelle luci, c’è qualcuno che lei ha salvato?
C’è qualcuno che non ha più un tumore, un’infezione, un malfunzionamento.
C’è qualcuno che ancora può stare con i propri cari, può tornare a lavorare, può partire, può sorridere, può viaggiare.
Ci sono cuori che camminano ogni giorno e che ogni giorno pensano a lei, e silenziosamente la ringraziano.
Come me. Come il mio di cuore.
Ho pensato tantissimo a lei quando finalmente sono andata dopo 6 mesi a mangiare sushi con le mie amiche: potevo tornare alla vita.
Quella cena io l’ho dedicata a lei… quel sorriso quella sera era per lei.
Noi pazienti non siamo tutti uguali; ci vuole la lente giusta per leggere e comprendere la realtà sanitaria. Non c’è niente di scontato nelle sale operatorie, nella bravura di un medico, nella passione di un chirurgo.
Io, il dono che mi è stato concesso cerco di meritarmelo ogni giorno. La fortuna di averla incontrata è stampata nella mia mente e nel mio cuore.
Sono stata ricoverata “sotto la sua ala” per un lunghissimo mese, e dalla finestra della mia stanza all’ottavo piano gli aerei da Linate continuavano a partire; era luglio e ho immaginato che dentro ci fossero tutte le persone pronte finalmente per le vacanze.
Stive piene costumi, creme e scarpe per gite.
Uno scherzo del destino quella finestra, che non ha mai smesso di ricordarmi invece che io su quegli aerei per il momento non potevo salirci. E che accanto a quella finestra c’era il mio armadietto invece pieno di sacchetti di stomie e camice da notte dalle taglie e colori improponibili per stare comoda.
Quella stessa identica finestra però - pensate a come la vita ci sa sorprendere sempre - mi ha regalato dei tramonti meravigliosi; colori e scenari che mi hanno fatto esplodere il cuore di meraviglia.
Come se qualcuno mi avesse preso e mi avesse detto “ti regalo la posizione di San Donato dove c’è il tramonto più bello.
Quel tramonto lo aspettavo ogni giorno, tra una terapia e l’altra, perché stava ad indicare che un altro giorno era passato, un altro passo verso la guarigione, un giorno in più per me.
Non aspettavo solo il tramonto, aspettavo a lungo anche il vostro passaggio. Il passaggio dei miei medici.
Gli occhi dolcissimi della Dottoressa Pamela, la capacità di sapermi sempre ascoltare della Dottoressa Viola, la competenza della Dottoressa Serena, l’ottimismo e il sorriso del Dottor Pietro, la mano “delicata” del Dottor Marco e la sua capacità di problem solving anche quando sono stata arrabbiata.
Vi aspettavo, e vi ho aspettato perché nelle vostre mani c’era la mia guarigione, c’era la mia speranza di tornare ad essere ancora felice per prendere anche io, uno di quegli aerei che partono dalla mia finestra.
Grazie per quello che avete fatto per me.
Non so se voi i pazienti li ricordate, quello che posso dirvi, però, è che noi invece ci ricordiamo sempre di voi.
Riconosciamo la vostra fatica, i vostri occhi stanchi, la vostra dedizione: grazie per quello che fate.
Grazie per aver riparato la parte di me che non funzionava.
Prometto di averne cura, per onorare e rispettare la vostra fatica, e la mia.
Magari ci incontreremo, in qualche locale o strada di Milano, so che vi sorriderò, e che quel sorriso, in gran parte sarà anche per merito vostro.
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